
La motilità e cangianza delle forme, cui corrispondono la mutevolezza di pensiero e stati d’animo, non sono che illusioni del mondo fisico. Così la pensava Parmenide, fondatore della scuola di Elea, secondo cui la fallace impressione di movimento prodotta dai sensi contrastava, logicamente, con l’essenza della realtà, paragonabile a una sfera perfetta, statica e uguale in ogni parte, e dunque finita e conclusa. Per il filosofo greco, la vera conoscenza non era, infatti, fondata sui sensi, ma sulla ragione, sul pensiero logico, il quale non poteva ammettere la coesistenza simultanea di essere e non essere e, dunque, la modificazione dell’essere in altro da sé, attraverso il movimento apparente delle forme. La sua teoria si contrapponeva al pensiero di Eraclito, basato interamente sulla conoscenza sensibile, come pure all’atomismo democriteo, che ipotizzava il movimento degli atomi in uno spazio vuoto. Lontano anni luce dalle idee di Parmenide, il pensiero prevalente della contemporaneità è, invece, largamente radicato nell’esperienza sensibile, sia essa di natura analogica o virtuale.Tutta l’arte contemporanea, o perlomeno gran parte di essa, può essere descritta come una teoria di tentativi di interpretare la realtà fenomenica, nelle sue variegate accezioni politiche, culturali, sociali, antropologiche. Essa è, in definitiva, una pratica intimamente connessa alla percezione del cambiamento, soprattutto in un’epoca, quale quella odierna, contraddistinta da una mobilità rapida delle strutture sociali e politiche, delle tecnologie, delle abitudini comportamentali. Quella che il sociologo Zygmunt Bauman definisce modernità liquida – in opposizione a quella solida, tipica dello sviluppo industriale – è una società caratterizzata da un’inedita accelerazione delle trasformazioni, che produce una condizione di permanente instabilità e incertezza. Con Bauman, il divenire illusorio di Parmenide assume le fattezze, tragicamente concrete, della globalizzazione e del consumismo, della rapida obsolescenza dei sistemi produttivi e tecnologici, che portano allo smantellamento delle certezze e alla formazione di uno stato di paura diffusa. La paura liquida induce, forse indirettamente, gli artisti a ragionare attorno ai fenomeni di variazione, a interrogarsi sulla natura instabile della realtà, percepita come il campo d’azione e di prova delle speculazioni correnti. Francesca Schgor, Agostino Bergamaschi e Andrea Bruschi affrontano, ognuno con un approccio personale, il tema della variazione percettiva delle immagini, del movimento delle forme e del conseguente adattamento cognitivo, attraverso opere che spaziano dalla scultura all’installazione, dalla pittura alla fotografia. Questi tre artisti rappresentano, anche anagraficamente, la generazione Y, quella dei Millenials o Echo Boomers nati tra gli anni Ottanta e i primi anni Duemila, all’apice della modernità liquida. Si tratta di una generazione cresciuta simmetricamente all’espansione di massa della comunicazione istantanea (internet, telefonia cellulare, social network), una generazione che, quasi per necessità, è stata nutrita, ma anche travolta, dal costante flusso d’informazioni dell’era digitale. Dentro questo flusso, questo magma informazionale, più che mai si avverte l’esigenza di recuperare il senso dell’esperienza diretta, non mediata, dei fenomeni. Forse per questo Andrea Bruschi, Agostino Bergamaschi e Francesca Schgor sembrano concentrare la loro attenzione su semplici meccanismi percettivi, indagando, con occhio nuovo, o con rinnovato stupore, la relazione tra forma, immagine e interpretazione.


Andrea Bruschi concepisce la pittura come un tentativo di appropriazione delle forme e delle immagini che caratterizzano il flusso dinamico della realtà, filtrate attraverso un linguaggio che alterna segni astratti e gesti informali con elementi grafici e lineari. Una volta inserite nello spazio pittorico, dominio operativo di accadimenti imprevedibili, le forme nitide e scandite del mondo fenomenico diventano incerte, quasi indecifrabili. Bruschi è consapevole del fatto che la pittura è, di per sé, una forma d’interpretazione, un territorio in cui realtà oggettiva e dimensione individuale collidono, generando incidenti ed errori affascinanti. Per l’artista, la pittura è, essenzialmente, una pratica cognitiva, che consente una diversa e forse più autentica elaborazione dei dati sensibili. Ad esempio, l’installazione intitolata Cosenz 54, che prende spunto dall’indicazione topografica di un cantiere edile della periferia di Milano, affronta il tema del mutamento e della variazione. Si tratta di un polittico di tele quadrate, d’identiche dimensioni, che riproduce la struttura a griglia di un calendario digitale. Ogni giorno (e quindi ogni tela) documenta un momento diverso dell’attività del cantiere, che trasfigura i movimenti della gru, attraverso le forme e i materiali sensibili della pittura, dando luogo a un inedito campionario d’immagini astratte. Anche i dipinti della serie Lux, eseguiti a olio e resina su fodere per aumentare gli effetti di trasparenza e i contrasti tra superfici lucide e opache, indagano i fenomeni di percezione luministica. Sono lavori monocromi, giocati su sottili gradazioni di tono, in cui l’artista verifica l’interazione tra le immagini reali, come la proiezione dell’ombra di una finestra, e il linguaggio autonomo della pittura, fatto di segni gestuali e macchie di colore.
IVAN QUARONI

